normalità apparente

E’ già qualche mattina che, nonostante il tempo novembrino che perseguita questo maggio, mi sveglio col sorriso.

Sono soddisfatta. Riesco anche a non riempirmi la giornata di impegni solo per tenermi occupata e stare bene.

Ieri mi è arrivata una foto della Puccia in tutto il suo splendore: occhi brillanti, sorriso a mille denti (ogni volta che le guardo i denti provo grande soddisfazione perché quelli ce li siamo conquistati uno ad uno e con grande fatica). Sembra tutto così normale.

E invece ora più che mai mi manca. Non nelle azioni quotidiane, nelle corse,nelle notti più o meno insonni e nei week end di pioggia interminabili. Mi manca tenerla stretta. Mi manca baciarla, guardarla, tenerla per mano.

La penso. Tanto. Spesso. E sorrido della dolcezza della mia malinconia.

Polpetta

Di Polpetta parlo poco. Lo so. Eppure un angolo del mio cuore e dei miei pensieri è sempre per lei. E’ stata la prima, la porta di ingresso di questo mondo meraviglioso e ricco chiamato accoglienza familiare.

Dopo un affido lungo e faticoso con parecchi colpi di scena, Polpetta è stata adottata. E la mia gioia per questa decisione del Tribunale è stata quasi incontenibile. Ne avevamo passate così tante nei mesi trascorsi insieme: mi immaginavo che avrei potuto vederla crescere, festeggiare insieme i suoi compleanni e continuare a far parte della sua vita e lei della nostra.

Le cose, come ho più volte detto, non vanno sempre come vorremmo. Già dopo il primo incontro dopo la conclusione dell’affido, le cose hanno preso una piega diversa, per me erroneamente, ingenuamente inaspettata. Dopo poco non ci siamo più incontrate.

Ogni tanto, se chiedo, ho qualche notizia. So che Polpetta sta crescendo bene e voglio immaginarmela serena nella sua nuova famiglia.

Sono stata, però, molto male. Mi sono interrogata per anni sul perché, su cosa potessi aver sbagliato. Alla fine mi sono perdonata: non credo di aver davvero sbagliato qualche cosa. Forse altre fragilità e non le mie hanno influenzato la scelta dei nuovi genitori.

Le famiglie affidatarie non hanno voce in capitolo, lo sappiamo fin dall’inizio. Per una persona come me, abituata nella vita privata e nel lavoro a prendere decisioni, è il compito più difficile: accettare senza discutere, senza appello.

Non ho pensato neanche per un secondo di smettere di accogliere ma mi sono fatta una promessa: rimanere con i piedi per terra e pur sognando la situazione migliore, prepararmi alla peggiore.

Ho fatto tanta strada da allora e sono più solida.

Ho imparato a consolarmi e a cercare il bello anche dove si fa fatica a vederlo.

Ora, anche io, sto bene.

ci vuole tempo

E’ tanto che non scrivo. Ci ho pensato. Ho pensato a scrivere ma poi mi sono accorta che non avevo le idee sufficientemente chiare. E’ dovuto passare del tempo, un bel viaggio fatto in famiglia. Ci sono state cene e pranzi con gli amici, annaffiare l’orto, pulire il terrazzo, trapiantare fiori…

Come in una di quelle sfere di vetro che se giri viene giù la neve. Serve tempo perché tutti quei pezzettini bianchi si ridepositino sul fondo e sembrino scomparsi.

Ho rivisto Paco. Credo che sia stato uno dei momenti più emozionanti della mia vita. E’ un bel bimbo, sempre biondissimo, sempre simpaticissimo. L’ultima volta che lo avevamo incontrato parlava appena e non mi dava il permesso di stargli troppo vicino pur chiamandomi ancora mamma. Per lui era troppo. Troppo stretto il mio abbraccio, troppo caldi i miei baci. Era stato un incontro intenso ma a distanza. Voleva che mi fosse chiaro che per lui non era facile. Che non potevamo far finta di niente.

Questa volta, dopo due anni dall’ultimo incontro, era emozionatissimo nel vederci e si è lasciato baciare. Gli ho chiesto il permesso e lui, abbassando gli occhi in un momento di timida emozione, ha detto subito di sì.

E poi abbiamo giocato. Tanto. Abbiamo dato le noci agli scoiattoli, il riso alle anatre e poi giocato ancora assecondando la sua fervida immaginazione e la sua fantasia.

Ha evitato accuratamente di chiamarci. Non per caso. E’ tutto ancora lì, non si è perso nulla di quello che c’è stato ma non siamo più mamma e papà. Diventeremo qualcosa di diverso che ancora, per lui, non ha un nome.

La neve però, anche per Paco, si sta lentamente depositando sul fondo della sfera e il paesaggio sta tornando ad essere nitido. Ci vuole tempo.

sarà la primavera

Sarà la primavera, sarà il sole che è tornato a splendere o forse solo le ferie imminenti, ma sento le farfalle nello stomaco. Sono emozionata come aspettando un primo appuntamento. Domattina rivedrò la Puccia. E’ passato un mese dall’ultima volta e non sto più nella pelle. Che poi quando sarò lì sarò impacciata e cercherò di leggere, sul suo viso, l’autorizzazione a strapazzarla di baci.

Perché in questi incontri non è tanto quello che desideriamo noi ad avere la precedenza, quanto piuttosto le emozioni che nei bambini provoca la nostra presenza. E’ necessario rispettare il loro spazio e i loro tempi.

Se ci penso faccio davvero fatica a ipotizzare quello che le passerà per la testa. E’ così piccola e ha avuto già una vita così intensa…

Poi, come se non bastasse, dopodomani vado a trovare anche Paco! E lì le cose si complicano…quasi due anni che non ci vediamo, ora ha esattamente il doppio degli anni dell’ultima volta e una meravigliosa parlantina.

Paco abita lontano, non è facile organizzare gli incontri.

Non so cosa succederà, se ci collocherà da qualche parte, in qualche sensazione o ricordo ma non mi importa.

Non mi interessa che sappia chi siamo e cosa è successo tra noi. Se vorrà, nel tempo, potremo parlarne. Sono solo felice di sentire il suo profumo, di vedere i suoi occhi birichini e scoprire come è nel suo nuovo mondo dopo che il tempo trascorso gli ha permesso di consolidare i suoi legami, senza di noi.

forse non è mai troppo tardi

I giorni passano lenti, le settimane veloci ed è già un mese che la Puccia è nella sua nuova casa. E’ bello immaginarla là, e ogni volta che ci arriva qualche foto o qualche messaggio la sensazione del lieto fine si rafforza.

Alla fine non ho più pianto. Ho fatto pace anche con questo. E’ stato un affido speciale, come speciale ne è stata la conclusione: tutto si è messo in ordine, anche le mie emozioni.

Ho, però, sentito la necessità, forte, urgente, di sistemare il mio bimbo sospeso. Anche per lui l’affido si è concluso bene, ma non lo vediamo da troppo tempo.

Paco ha fatto tanta fatica. Glielo abbiamo letto negli occhi durante i nostri primi incontri dopo il passaggio. Quegli occhi birichini erano velati, non più brillanti. E ancora dopo mesi mi chiamava insistentemente mamma. Abbiamo cercato di rispettare i tempi di tutti stando in disparte e quando è arrivato il momento di incontrarlo di nuovo, c’era già la Puccia e non siamo riusciti a vederci.

E mi sembra di averlo tanto trascurato ed è ora di ricucire anche quello strappo che ancora sento dentro di me.

Ho chiamato, ci siamo accordati e finalmente, presto, ci rivedremo.

A volte mi sembra di essere un equilibrista su una fune davvero troppo stretta. Tante persone hanno incrociato la nostra vita e tutte meritano un’attenzione speciale ed esclusiva. Non sempre ci si riesce. A volte si rincorrono gli attimi appena fuggiti.

L’importante è provarci e non pensare che potrebbe essere troppo tardi.

un momento perfetto

Sto provando a fare ordine nei miei pensieri, a ripescare ricordi, a metterli in fila. Ieri sera prima di andare a dormire mi sono soffermata su una foto di me e Paco, al mare. E’ una foto bellissima scattata all’alba dell’ultimo giorno di vacanza. Paco per tutta la nostra permanenza ha deciso che il sole migliore, in spiaggia, si prende alle 6 di mattina e quindi mi ha regalato 13 albe nel silenzio e nello splendore della spiaggia deserta. La quattordicesima mattina c’era in spiaggia una ragazza, conosciuta sul posto, che ci ha scattato questa foto. Ci siamo io e lui, sulla sdraio, mentre Paco si arrampica sulle mie gambe e ci guardiamo intensamente negli occhi, sorridendo e tenendoci per le mani. Quel giorno non sapevamo ancora nulla sul nostro futuro e su come si sarebbero concluse le cose. E’ il fermo immagine di un momento perfetto. La guardo tutte le volte che vado in camera da letto dove sono appese una cinquantina di foto della nostra famiglia a fisarmonica: il nostro album di famiglia. Ma ieri sera quando ho guardato quella foto ho risentito mentalmente la vocina di Paco che mi chiamava mamma, con la sua solita insistenza. E mi si è stretto il cuore in un abbraccio malinconico su tutto quello che è stato. Su quel figlio biondissimo che ho così tanto amato e che così tanto amo ancora. E mi è mancato da morire averlo lì e guardarlo negli occhi, come nella foto.

Spero tanto di piangere

Non ho ancora avuto la soddisfazione di piangere. Che detto così, magari, mi fa pure sembrare quantomeno strana. Di solito il pianto, quello vero con i singhiozzi, si impossessa di me nel momento in cui smonto il lettino. Il lettino mi ha sempre fatto questo effetto. Non il seggiolone, la vasca da bagno, il passeggino, i giochi… no, solo il lettino. Quello è il punto di non ritorno.

Stavolta niente. Sono un po’ preoccupata.

E’ che la Puccia mi manca un sacco e mi commuovo a riguardare le foto, ma non vorrei riaverla qui. Faccio fatica pure io a capirla ‘sta cosa. Mi dico che è perché so bene dove sta e con chi sta, e il mio cuore mi dice che è proprio dove doveva tornare. Un po’ come quando liberi in mare una tartaruga (ebbene sì, l’ho fatto) che hai raccolto debole e ferita e l’hai accudita aspettando solo il momento di poterla rimettere in mare e vederla andare via. Ma non credo di essere diventata così saggia e matura. Oppure sto semplicemente diventando arida e insensibile, ma questa opzione non la voglio neppure considerare. Fatto sta che non ho ancora pianto.

Domenica andremo a trovarla per la prima volta e non vedo l’ora. Che invece di solito non ne ho mai voglia. Il primo incontro dopo il saluto è sempre un po’ come aprire il vaso di Pandora: il vortice di emozioni ti risucchia e non sai mai come ne esci. Sono curiosa di vedere cosa proverò a vederla lì, nella sua vita, e come starò dopo.

Spero tanto di piangere.

E non ho più parlato

Sono tornata a yoga settimana scorsa. Dopo più di un mese d’assenza dovuto al periodo di passaggio della Puccia. Mi hanno chiesto dove fossi finita e davano per scontato che fossi via per lavoro. In effetti avevo avvisato solo la maestra del reale motivo della mia assenza.

Non so come mai, ma se in alcuni ambienti parlo di affido come fossi una promotrice esperta in marketing, negli ambienti miei, quelli più intimi, se posso, taccio.

Ma lunedì scorso ho parlato. Perché la gioia della conclusione di questa esperienza non mi permetteva di tacere. E mi hanno fatto tante domande e mi hanno pure chiesto se non mi era mai venuta voglia di adottare un altro figlio. Alcune domande me le aspetto, altre meno ma ci sta tutto purché se ne parli. Parliamo di affido, parlarne fa bene e permette di diffondere uno stile di vita che fa dell’accoglienza e della disponibilità un punto di forza.

Ieri sera una delle mie colleghe di sudore mi ha guardato dritto negli occhi e mi ha detto che avrebbe voluto scrivermi un messaggio. Poi mi ha spiegato:”Volevo scriverti perché c’è una bella differenza tra dire che si vorrebbe cambiare il mondo e farlo per davvero. E quello che fai tu, cambia il mondo”.

Questo nessuno me lo aveva mai detto. Mi ha fatto venire la pelle d’oca. E non ho più parlato.

un regalo bellissimo

Ogni volta arrivo a fine affido completamente sazia. Come dopo un pranzo di quelli eterni, tipo matrimonio per intenderci. Che ti alzi da tavola e dici: non voglio mangiare più nulla per il resto della mia vita.

Ecco, la sensazione è quella. Poi ci sono gli anni che passano e la domanda che mi pongo è se avremo ancora la volontà di ripartire da capo ridando una nuova disponibilità.

So che non è il momento per chiederselo. Forse non ha neanche senso chiederselo perché la risposta arriverà da sola, basterà saperla ascoltare.

Segnali, anche se prematuri, ce ne sono.

L’altra sera Donzella se ne esce così: “Sai mamma, credo che avrei potuto essere una bravissima sorella maggiore se avessi avuto un fratellino o una sorellina.”. Confermo, ne sono certa. Ma poi continua: “Però così è anche meglio, ho avuto tanti fratellini e sorelline a cui fare da sorella maggiore. Lo voglio fare anche io da grande l’affido. Lo voglio fare per mio figlio o mia figlia perché è un regalo bellissimo”.

quel silenzio assordante

La casa in questo momento sembra enorme. Ed è oltremodo silenziosa. Ogni tanto io e Re di Triglie ci guardiamo intorno e diciamo: “Che silenzio!”.

Per il momento questo silenzio assordante è un grande regalo. Il saperti a casa, poi,  completa questo momento di pace che ci stiamo godendo in punta di piedi.

E’ stato un lieto fine. Non sempre è così. Ma qui il finale ha davvero dato un senso a tutto il cammino che abbiamo fatto insieme. E mi sento, di nuovo, immensamente grata.