Tutti pensano che quando un affido finisce, ti si possa spezzare il cuore. Certo, quando questi bambini escono dalla tua casa, si perde completamente la gioia della quotidianità e all’inizio il dolore è molto grande. Ma mi piace definirlo un dolore bello, forse paragonabile a quando tuo figlio va a vivere da solo, o si sposa. Quando la porta di casa si chiude, dopo un piccolo panico iniziale (e adesso?? che faccio??) la soddisfazione è molto grande. Donzella vive ancora con noi anche se sfoglia riviste immobiliari per quando inizierà l’università, momento che lei fa coincidere con l’inizio della sua indipendenza abitativa. Non so se davvero sarà allora che andrà via, ma glielo auguro di cuore. E sarà per me fonte di grande soddisfazione. Crescere un figlio che sia in grado di chiudere serenamente quella porta, non è facile. Soprattutto in tempi in cui vedo genitori che spingono passeggini con sopra figli davvero troppo grandi. Che lasciarli crescere sarebbe il nostro dovere più grande. Vero è che i bimbi che ho avuto in affido sono sempre andati via piccoli, che la scelta non è stata la loro né per l’arrivo né per la partenza. Ma che importa? Averli accompagnati a quel saluto in modo da vederli andare via sereni… vale tutto il dolore del mondo. Poi la fatica c’è, ed è sempre tanta sia per noi, che per il bambino, che per i suoi genitori, siano essi naturali o adottivi. Ma le belle esperienze lasciano solo del buono, anche nel dolore e nella fatica. Uno dei temi più dibattuti negli incontri a cui partecipo è se sarebbe possibile evitare ai bambini questo passaggio e questo dolore. E ogni volta fra me e me penso: “Sì certo, basterebbe eliminare l’affidamento familiare”. Ho letto da qualche parte, a tal proposito, che si può trapiantare con successo solo una piantina che abbia messo radici. E’ vero all’inizio farà un po’ fatica, ma poi crescerà grande e rigogliosa. Questo è il nostro compito. Far sì che questi bimbi-piantina mettano radici e le mettano forti, in grado di mantenerli belli saldi anche durante le tempeste della vita. E’ vederle arrivare queste piantine, così fragili e con piccole radichette che non sanno in che terreno affondare né da dove trarre nutrimento, che mi crea dolore. E quello squarcio che senti dentro quando posano i loro occhi nei tuoi per la prima volta, non si può dimenticare.
la cautela delle mamme
Credo che crescere per un periodo un figlio non nostro sia un grande privilegio. Credo che sia, inoltre, di grande insegnamento. A me ha insegnato il rispetto per Donzella. Avevo sempre dato istintivamente per scontato che solo per il fatto che fosse mia figlia, dovesse darmi ascolto, seguire le mie indicazioni e assecondare le mie inclinazioni. Soprattutto quando era piccola: è mia figlia, io so. E invece non sapevo proprio niente. Quando è arrivata la Polpetta aveva solo 8 mesi ma già io la percepivo e rispettavo come un individuo, come una persona che avrei dovuto conoscere, a cui avrei dovuto imparare ad approcciarmi affinché potessi esserle utile. Avremmo dovuto imparare a relazionarci: io come mamma e lei come figlia. Questo muovere un passo alla volta, mettersi tanto in discussione ed osservare la reazione che ogni mia azione scatenava… con Donzella non lo avevo mai fatto. Non l’avevo mai osservata per ore per vedere cosa facesse e come reagisse a certi stimoli. Non avevo, ad esempio, mai apprezzato la sua calma, la sua lentezza nell’avvicinarsi alle cose. Una lentezza tutt’altro che improduttiva. Uno spazio tutto suo in cui si perde, ancora oggi, in sogni e pensieri. Io, una mamma super veloce e super efficiente, lei una figlia piena di pause e riflessioni. Penso di aver fatto anche dei danni, in passato. Mi consola che i bambini siano sempre molto indulgenti con noi adulti e ci accettino per quello che siamo. Almeno Donzella, con me, lo ha sempre fatto. Credo che da Polpetta in poi io sia diventata una mamma migliore. Adesso so quanto è necessario essere caute quando si è madri. Perché molto, ma molto più importante di quello che facciamo è il tempo in cui stiamo ferme ad ascoltare e a osservare.
un lunedì elevato alla quinta
Sono mesi che non dormo abbastanza. Qualche giorno il torpore che mi lasciano le nottate complicate non si attenua, qualche volta invece, con l’andare delle ore il cervello diventa un po’ più lucido. Direi che per me è questa la parte più difficile dell’affido: la privazione del sonno. E’ anche il motivo che mi fa apprezzare il fatto che prima o poi un affido (salvo complicazioni varie) finisca. Oggi è uno di quei giorni. Un lunedì elevato alla quinta. Io e Re di Triglie facciamo a turno a gestire i risvegli notturni dei pulcini ma a volte, i risvegli restano comunque troppi anche se equamente divisi a metà. La sensazione è quella di vivere una vita sospesa mentre si ha un bimbo in famiglia. Sospesa tra il prima e il dopo, sia nel bene che nel male. Una bolla in cui non si progettano viaggi, non si esce a cena con gli amici, si sta tanto tempo a casa, in famiglia e si apprezza anche solo riuscire a leggere un articolo di giornale. Un tempo sospeso in cui, spesso, si dorme davvero troppo poco. E oggi vedo la fatica, il lavoro che resta un po’ indietro, i mille ragionamenti su strategie nuove da provare per vedere di migliorare la situazione. Ma questi bimbi hanno vissuti difficili e spesso le loro angosce si amplificano nel sonno notturno. E mentre hai la testa che ciondola e fai fatica a tenere gli occhi aperti loro sono lì, tra le tue braccia e con le loro manine cercano di restarti ancorati per paura di perdersi una volta riaddormentati, di andare alla deriva, e si crogiolano in tutto quell’amore che di notte si fa più denso. E’ anche la parte che amo di più, questa fatica. La notte in cui tutto si ferma, la casa è silenziosa e loro riescono ad esternare le loro paure che tu sei lì a raccogliere e rendere un po’ meno angoscianti, un poco più lontane. E poi sorge il sole, tutto ricomincia con il primo caffè della mattina. E mi piace pensare che tutto questo sonno, tutto questo sentirsi stropicciati e poco lucidi sia il bagaglio che ci portiamo dietro lungo questa strada che percorriamo insieme. E dentro a questo bagaglio c’è tutta l’essenza di questo temporaneo “noi”.
ma come siete bravi
Il giorno che Lei è arrivata non stavo più nella pelle. Non sapevo cosa aspettarmi, che viso avesse, quali segni portasse del suo vissuto. Me l’aspettavo minuta, piccolina e un po’ spaurita e invece Lei era la bimba più paffuta che io avessi mai abbracciato. Non era neanche spaurita. Ho potuto prenderla in braccio dopo solo pochi minuti e Lei non ha fatto neppure una smorfia. Ho capito solo dopo che questo non fosse un buon segno… A distanza di anni pensando a quel momento in cui io e Re di Triglie, mio marito, abbiamo portato a casa una nuova figlia, provo molta tenerezza nei nostri confronti.
In punta di piedi a spiare questo dono meraviglioso che l’affido ci aveva fatto, o che noi stessi ci eravamo fatti decidendo di entrare in questo mondo.
Trionfanti ed orgogliosi siamo andati a prendere Donzella, nostra figlia, a scuola con Lei nel passeggino. Donzella ai tempi faceva le elementari. Ci hanno fermato tutti quelli che conoscevamo e abbiamo scoperto, nel giro di un pomeriggio, cosa i genitori affidatari non vorrebbero mai sentirsi dire: “Ma come siete bravi. Io non potrei mai”. A me, ancora oggi, si smuove dentro una roba grande che se non è rabbia molto ci si avvicina.
Provo rabbia per tante ragioni diverse. Prima di tutto perché ho sempre detestato la definizione “bravo” o “brava”. Poi perché la maggior parte delle persone che ci circonda neanche si è mai posto la domanda se davvero non potrebbe o se ha solo paura di mettersi in gioco.
Perché in gioco ci si mette davvero, e quando un affido termina, non ci lascia mai esattamente uguali a quando è iniziato. A me piace come ogni esperienza ha trasformato la mia famiglia. Ho visto sempre una grande crescita e siamo arrivati a conoscerci veramente bene.
E allora quando sento la fatidica frase: “Ma che bravi che siete, io non potrei mai”, semplicemente rispondo: “peccato, non sai cosa ti perdi”.
quando il vuoto diventa spazio
Che poi l’affido è uno stile di vita, mica un’esperienza che si fa e poi si può decidere lucidamente e razionalmente se rifarne un’altra o meno.
Questo è un concetto difficile da capire per chi non ha mai vissuto una storia di affido. I bambini che arrivano in famiglia, fanno un pezzo di vita con te e quando vanno via ti lasciano un bagaglio di emozioni, ricordi, sogni, idee, pensieri che non arrivano mai a una conclusione vera.
E quindi, dopo tutto il tempo che serve alla famiglia a fisarmonica per tornare a contrarsi e stare bene nel “solito” equilibrio, si riparte, verso una nuova avventura.
E si riparte più emozionati e convinti di prima perché i bambini che hanno bisogno sono tanti e questa realtà non può più essere ignorata.
Ormai lo si sa che si può fare, si sa che ne vale la pena, si sa che si sta male ma un male bello in cui ci sono comunque aspetti positivi.
Lo spazio per quella disponibilità è lì, quasi tangibile, nel tuo cuore, nella tua anima e nella tua casa.
Il vuoto lasciato dal bimbo che hai accompagnato per un pezzo di strada diventa uno spazio. Uno spazio che può di nuovo essere riempito.
Ed è un attimo. “Vi chiameremo noi”.