quando la tempesta non fa più paura

“Solo gli inquieti sanno com’è difficile sopravvivere alla tempesta e non poter vivere senza.”

Emily Bronte

L’altro giorno ho conosciuto una nuova coppia che si accinge ad accogliere per la prima volta un bambino. Mentre raccontavamo le nostre esperienze e rispondevamo alle loro domande, mi girava per la testa questa frase. Perché la domanda su cosa succede e come si sta quando questi bambini vanno via salta sempre fuori e nel rispondere, con il cuore in mano, si fa fatica a spiegare perché, dopo la sofferenza tanto inevitabile quanto necessaria, si torna a dare la disponibilità per un nuovo affido.

E’ perché dopo che si è conosciuta la tempesta, si è fatto fronte a ogni ostacolo e si è sopravvissuti, la tempesta non fa più così paura. La tempesta ci fa crescere, ci mette alla prova e ci rende migliori. E se si è inquieti, un po’ come lo sono io, non se ne può più fare a meno.

temporaneamente

Dopo quasi 11 mesi dall’arrivo della Puccia inizio a capirci qualche cosa. E dire che lei è una bimba davvero comunicativa che potrebbe sembrar facile da comprendere e gestire. Potrebbe.

Sono circa 6 mesi che il suo sonno notturno è peggiorato e che stiamo cercando di trovare il modo di farla riposare meglio.

Ora abbiamo il nostro letto al centro della stanza, un po’ alla Versailles, ma l’impressione non è altrettanto regale, anzi. Sembra più che ci sia una parete da imbiancare o qualche piccolo lavoro da fare e che lo spostamento sia solo temporaneo.

E certo, temporaneo come l’affido.

Il Re di Triglie ha deciso, dopo un paio di notti trascorse sul lago di Garda in cui la piccola ha dormito un po’ meglio, che sia indispensabile che il suo lettino stia di fianco al lettone, in modo che lei ci possa vedere quando si sveglia.

Che dobbiamo fare? Proviamo anche questa.

Il Re di Triglie sostiene, dopo tre notti,  che ci sia già un grosso miglioramento e siccome si alza lui prima dell’alba, ci crediamo tutti. L’importante è non arrendersi.

E così, dopo aver lasciato la camera più grande a Donzella che avrebbe potuto goderla di più anche durante il giorno (ma quando mai? ha campeggiato tra cucina e salotto fino a 1 anno fa), adesso abbiamo anche il letto, temporaneamente, in mezzo alla stanza. Cosa non si fa per le figlie.

il controsenso di amare la salita

Le cose con la Puccia stanno andando molto bene. Lei è una bimba molto affettuosa, simpatica e i legami che abbiamo stabilito tra di noi sono solidi. Ci dà dimostrazioni continue della fiducia totale che ha riposto in noi. Certo, le notti sono sempre roccambolesche e il Re di Triglie non perde occasione per sottolinearne la fatica. Che non occorrerebbe neanche, mi basta guardarmi allo specchio per vedere le occhiaie e quel bel colorito grigio che contraddistinguono questo periodo. Ma la mattina è sempre un nuovo giorno, è sufficiente che non mi guardi allo specchio ma che concentri la mia attenzione sul visino paffuto e roseo della Puccia. Lei sì che è uno spettacolo alla mattina. Fatto il pieno di attenzioni e coccole che per lei deve essere tassativamente h24, è allegra sorridente e spesso canterina. Abbiamo tutto il nostro rituale mattutino che prevede il suo religioso silenzio e la sua quasi immobilità mentre attende che io abbia finito il mio caffè e poi tutto può procedere a ritmo serrato: colazione, lavare e vestire lei, lavare e vestire me, rassettare il minimo indispensabile casa per cancellare le tracce della notte trascorsa tra divano, poltrona e cucina: i biberon per terra, le coperte appallottolate e 3 o 4 cuscini sparsi. Poi scarpe e giacca e si esce: dal lunedì al venerdì è tutta una salita.

Ma i miei amici sportivi sia ciclisti che triatleti, tutti, nessuno escluso, sostengono di amare più di tutto la salita. Io ho sempre chiesto incredula il perché (io non è che la ami così tanto, anzi) e loro sempre risposto che la salita è la parte più bella perché ti mette alla prova, ti regala la soddisfazione della vetta e soprattutto a un certo punto finisce e poi c’è la discesa.

Ecco, se penso alla vetta e alla discesa che concluderanno anche questo affido il mio stomaco inizia a fare qualche capriola e mi tocca ammettere che in effetti, anche io, ho iniziato ad amare la salita.

di mamme, non ce n’è mica una sola!

La settimana scorsa è stata tutta una corsa. Partenza in salita con la Puccia febbricitante e tutto il lavoro da riorganizzare di conseguenza. Per fortuna la mia vita è sufficientemente elastica, quindi riesco a non dare di matto ad ogni imprevisto. Poi però un regalo inaspettato: un’altra mamma affidataria, che in questo momento vive una pausa post conclusione affido, si è offerta di venire a darmi una mano. Meraviglia.

Altro dono di questa esperienza? Le persone, i colleghi di affido. Siamo un bel gruppo, tutti molto diversi tra di noi ma accomunati da questa esperienza che prende la tua vita, la tua anima e il tuo cuore tra le mani e li rimescola, strizza, arriccia e modella come meglio crede. La co-educazione in questi progetti è un concetto imprescindibile. In primo luogo perché abbiamo in famiglia un bimbo non nostro che ha una mamma e un papà biologici che vede, più o meno periodicamente, nei cosiddetti “incontri protetti”. Spesso poi ci sono anche altri parenti coinvolti nel progetto ed allora ci saranno incontri protetti anche con loro. Agli incontri protetti sono presenti gli educatori che, nel nostro caso, hanno un rapporto quotidiano con i bimbi e con noi. E se ancora non bastasse c’è la psicologa, ci sono nonni, zii, amici e ognuno contribuisce, a suo modo, all’educazione, in questo caso, della Puccia. Una costellazione di figure più o meno importanti che con la loro presenza, i loro consigli e i loro interventi, partecipano attivamente all’educazione del pupo. Che di mamme, non ce n’è mica una sola!

Nell’affido tutto questo, come dicevo, fa parte del gioco. E questi bambini, nella loro sfortuna, hanno la grande opportunità di avere intorno tante persone  diverse che si preoccupano e occupano di loro. Non so se con Donzella avrei tollerato così tanti co-educatori o avrei vissuto tutto questo come un’intromissione. Non sono mai stata una mamma facciotuttoio ma, essendomi trasferita in una nuova città e non avendo nessuno che frequentasse la mia casa con assiduità… ho dovuto faretuttoio lo stesso, anche se non per scelta. E infatti a suo tempo ho un po’ sbroccato, e quando Donzella ha avuto 15 mesi io e Re di Triglie abbiamo fatto cambio: io al lavoro e lui a casa. Ma questa è un’altra storia.

il sorriso più bello

Tutti i bimbi che hanno allargato per un periodo la nostra famiglia, hanno avuto un soprannome con la P. Non tutti i soprannomi li abbiamo scelti noi. A volte sono semplicemente arrivati, un regalo di qualche amico che frequenta la nostra casa. Abbiamo così avuto per le mani una Polpetta, una Piculitza, un Pigolo, un Paco e, ora, una Puccia, anzi, una Puccia Rotolina.

Ognuno di loro ha lasciato qualcosa. E’ bello riportare alla memoria alcuni atteggiamenti, abitudini, parole che hanno caratterizzato quei periodi, più o meno brevi. Perché a volte ci si scorda. Per esempio l’altra sera parlavamo con Re di Triglie di quando Paco lo andava a svegliare. Era così buffo vederlo correre verso il comodino, afferrare cellulare e occhiali, metterglieli sul cuscino e arrampicarsi sul letto per riempirlo di baci. Re di Triglie ha un risveglio che definire lento è riduttivo. Il suo tempo di risveglio ha a che fare con le ere geologiche e le rocce sedimentarie ma Paco non ha mai smesso di credere in una sua risposta immediata. La perseveranza di Paco è davvero ammirevole. Quella che più spesso rientra nei nostri racconti e ricordi è la Piculitza. E’ stato il nostro affido più breve e la bimba più grande: 5 giorni e 5 anni e mezzo di argento vivo. La Piculitza ci ha insegnato tante parole in una lingua a noi sconosciuta e ne ha imparate tantissime in italiano. Ci ha mostrato quanto può essere difficile affrontare una separazione di cui non si conoscono le cause e di come fa paura trovarsi tra persone sconosciute. Ma anche come poi sia possibile affidarsi, trovare un proprio spazio e cogliere gli aspetti positivi che ogni situazione, anche la più complessa e spaventosa, nasconde. E’ stato un weekend intenso in cui ho amato anche fare shopping (udite udite) perché un paio di scarpe nuove, rosse, mi ha regalato il sorriso più bello che avessi mai visto.

quando tutto sembra possibile

Questa mattina, inspiegabilmente, mi sono alzata molto energica. Nonostante il weekend piuttosto piatto. Io sono un po’ come gli orologi che si ricaricano con il movimento del polso. Se non faccio, non mi muovo, non progetto, non programmo… mi spengo. E non do neanche il segnale low battery, mi spengo e basta. Ma oggi mi sono alzata energica. Nonostante il pc rotto da portare ad aggiustare, il fatto che sia lunedì, che la settimana si prospetti densa di impegni poco piacevoli tra cui il dentista, sono pervasa di energia. Sarà che oggi c’è il sole. Sarà che la Puccia si è svegliata dopo una notte difficile e impegnativa trascorsa tra le braccia di Re di Triglie (grazie sempre mio prezioso alleato) con un sorriso disarmante e gli occhi che brillano. Sarà che ci sono mattine in cui sei consapevole che ce la puoi fare, che giorno dopo giorno percorrerai questa lunga strada di cui ancora non si vede la fine che potrebbe essere dopo ogni svolta. Respiri a pieni polmoni questa frizzante aria di Novembre e oggi, solo per oggi, tutto ti sembra possibile.

quando la luna di miele finisce

Ieri sono stata a un corso di formazione tenuto da un pedagogista che amo molto per la sua chiarezza e per gli spunti di riflessione che, ad ogni incontro, ci regala.

Ad un certo punto ha detto una frase che mi ha colpito. Non ricordo le esatte parole ma suonava più o meno così:  E’ quando finisce la luna di miele e ti alzi la mattina che ne hai le scatole piene, dopo un paio di mesi in cui ti sei sentito un supereroe, che inizia davvero l’affido.

Il discorso ampio che ne è seguito si è incentrato sul fatto che i bambini affidati traggono il meglio da noi quando siamo veri, noi stessi, con difetti ed errori che nella vita quotidiana non ci preoccupiamo di nascondere.

Ma quello che io ho sentito forte è stata l’autorizzazione ad averne piene le scatole. Quindi non sono l’unica a chiedersi mille volte: “Ma chi me lo ha fatto fare?”

Tutti i bambini ti stravolgono la vita. Tutti i bambini, se crescono con te, ti costringono a compromessi tra quello che vorresti fare e quello che realmente puoi fare.

Ma questi bambini di più. Non solo per il loro vissuto, per le fatiche che si portano dentro e ti tirano fuori, ma anche e soprattutto perché li hai profondamente scelti, e ora in qualche modo devi dare loro il massimo che hai da offrire.

Quando decidi di avere un figlio, non fai un percorso con psicologi e assistenti sociali che ti chiedono, in numerosi incontri, ripetutamente: “Ma sei sicuro?”, “Lo vuoi davvero fare?”, “Perché lo vuoi fare?”.  Forse sarebbe un bene che  prima di diventare genitori si facesse un percorso del genere. A me sarebbe servito, a suo tempo.

E quindi non ci si può stupire se il nostro io e quello che vorrebbe passa in secondo piano, durante l’affido. Non che questo, ogni tanto, non mi crei frustrazione, ma è stata una mia scelta.

Ho un amico, un caro amico, che quando è arrivata la prima bimba in affido mi ha dato segnali di grande stima per quello che stavo facendo. Affido dopo affido, la stima (che sono certa ci sia ancora) non viene più espressa e in compenso, ora, ogni volta che un bimbo trova la sua strada, mi chiede perentorio: “Non ne farai mica un altro? Che poi sparisci”.

Personalmente, è durante quella sparizione dalla vita precedente che pongo le basi per la vita successiva. E a volte nella vita successiva le persone che ho attorno sono diverse da quelle di prima (ma il mio amico lo ritrovo sempre). E’ in queste pause che sento di crescere, di diventare più forte e consapevole e di fare davvero qualcosa che può cambiare il mondo in meglio.

Perché se si vuole cambiare il mondo, quale modo migliore se non aiutare un bambino a crescere?

quello squarcio dentro

Tutti pensano che quando un affido finisce, ti si possa spezzare il cuore. Certo, quando questi bambini escono dalla tua casa, si perde completamente la gioia della quotidianità e all’inizio il dolore è molto grande. Ma mi piace definirlo un dolore bello, forse paragonabile a quando tuo figlio va a vivere da solo, o si sposa. Quando la porta di casa si chiude, dopo un piccolo panico iniziale (e adesso?? che faccio??) la soddisfazione è molto grande. Donzella vive ancora con noi anche se sfoglia riviste immobiliari per quando inizierà l’università, momento che lei fa coincidere con l’inizio della sua indipendenza abitativa. Non so se davvero sarà allora che andrà via, ma glielo auguro di cuore. E sarà per me fonte di grande soddisfazione. Crescere un figlio che sia in grado di chiudere serenamente quella porta, non è facile. Soprattutto in tempi in cui vedo genitori che spingono passeggini con sopra figli davvero troppo grandi. Che lasciarli crescere sarebbe il nostro dovere più grande. Vero è che i bimbi che ho avuto in affido sono sempre andati via piccoli, che la scelta non è stata la loro né per l’arrivo né per la partenza. Ma che importa? Averli accompagnati a quel saluto in modo da vederli andare via sereni… vale tutto il dolore del mondo. Poi la fatica c’è, ed è sempre tanta sia per noi, che per il bambino, che per i suoi genitori, siano essi naturali o adottivi. Ma le belle esperienze lasciano solo del buono, anche nel dolore e nella fatica.  Uno dei temi più dibattuti negli incontri a cui partecipo è se sarebbe possibile evitare ai bambini questo passaggio e questo dolore. E ogni volta fra me e me penso: “Sì certo, basterebbe eliminare l’affidamento familiare”. Ho letto da qualche parte, a tal proposito, che si può trapiantare con successo solo una piantina che abbia messo radici. E’ vero all’inizio farà un po’ fatica, ma poi crescerà grande e rigogliosa. Questo è il nostro compito. Far sì che questi bimbi-piantina mettano radici e le mettano forti, in grado di mantenerli belli saldi anche durante le tempeste della vita. E’ vederle arrivare queste piantine, così fragili e con piccole radichette che non sanno in che terreno affondare né da dove trarre nutrimento, che mi crea dolore. E quello squarcio che senti dentro quando posano i loro occhi nei tuoi per la prima volta, non si può dimenticare.

la cautela delle mamme

Credo che crescere per un periodo un figlio non nostro sia un grande privilegio. Credo che sia, inoltre, di grande insegnamento. A me ha insegnato il rispetto per Donzella. Avevo sempre dato istintivamente per scontato che solo per il fatto che fosse mia figlia, dovesse darmi ascolto, seguire le mie indicazioni e assecondare le mie inclinazioni. Soprattutto quando era piccola: è mia figlia, io so. E invece non sapevo proprio niente. Quando è arrivata la Polpetta aveva solo 8 mesi ma già io la percepivo e rispettavo come un individuo, come una persona che avrei dovuto conoscere, a cui avrei dovuto imparare ad approcciarmi affinché potessi esserle utile. Avremmo dovuto imparare a relazionarci: io come mamma e lei come figlia. Questo muovere un passo alla volta, mettersi tanto in discussione ed osservare la reazione che ogni mia azione scatenava… con Donzella non lo avevo mai fatto. Non l’avevo mai osservata per ore per vedere cosa facesse e come reagisse a certi stimoli. Non avevo, ad esempio, mai apprezzato la sua calma, la sua lentezza nell’avvicinarsi alle cose. Una lentezza tutt’altro che improduttiva. Uno spazio tutto suo in cui si perde, ancora oggi, in sogni e pensieri. Io, una mamma super veloce e super efficiente, lei una figlia piena di pause e riflessioni. Penso di aver fatto anche dei danni, in passato. Mi consola che i bambini siano sempre molto indulgenti con noi adulti e ci accettino per quello che siamo. Almeno Donzella, con me, lo ha sempre fatto. Credo che da Polpetta in poi io sia diventata una mamma migliore. Adesso so quanto è necessario essere caute quando si è madri. Perché molto, ma molto più importante di quello che facciamo è il tempo in cui stiamo ferme ad ascoltare e a osservare.

un lunedì elevato alla quinta

Sono mesi che non dormo abbastanza. Qualche giorno il torpore che mi lasciano le nottate complicate non si attenua, qualche volta invece, con l’andare delle ore il cervello diventa un po’ più lucido. Direi che per me è questa la parte più difficile dell’affido: la privazione del sonno. E’ anche il motivo che mi fa apprezzare il fatto che prima o poi un affido (salvo complicazioni varie) finisca. Oggi è uno di quei giorni. Un lunedì elevato alla quinta. Io e Re di Triglie facciamo a turno a gestire i risvegli notturni dei pulcini ma a volte, i risvegli restano comunque troppi anche se equamente divisi a metà. La sensazione è quella di vivere una vita sospesa mentre si ha un bimbo in famiglia. Sospesa tra il prima e il dopo, sia nel bene che nel male. Una bolla in cui non si progettano viaggi, non si esce a cena con gli amici, si sta tanto tempo a casa, in famiglia e si apprezza anche solo riuscire a leggere un articolo di giornale. Un tempo sospeso in cui, spesso, si dorme davvero troppo poco. E oggi vedo la fatica, il lavoro che resta un po’ indietro, i mille ragionamenti su strategie nuove da provare per vedere di migliorare la situazione. Ma questi bimbi hanno vissuti difficili e spesso le loro angosce si amplificano nel sonno notturno. E mentre hai la testa che ciondola e fai fatica a tenere gli occhi aperti loro sono lì, tra le tue braccia e con le loro manine cercano di restarti ancorati per paura di perdersi una volta riaddormentati, di andare alla deriva, e si crogiolano in tutto quell’amore che di notte si fa più denso. E’ anche la parte che amo di più, questa fatica. La notte in cui tutto si ferma, la casa è silenziosa e loro riescono ad esternare le loro paure che tu sei lì a raccogliere e rendere un po’ meno angoscianti, un poco più lontane. E poi sorge il sole, tutto ricomincia con il primo caffè della mattina. E mi piace pensare che tutto questo sonno, tutto questo sentirsi stropicciati e poco lucidi sia il bagaglio che ci portiamo dietro lungo questa strada che percorriamo insieme. E dentro a questo bagaglio c’è tutta l’essenza di questo temporaneo “noi”.